venerdì 11 novembre 2011

La psicosi puerperale...quando le mamme sono tristi!

Tra i disturbi psicologici che si possono riscontrare dopo la nascita del bambino, la situazione più preoccupante è rappresentata dalla psicosi post-partum. 
Fortunatamente, si verifica in un numero limitato di casi, 2-3 casi per mille nascite. L’etiopatogenesi delle psicosi puerperali risulta essere piuttosto complessa: il rischio di sviluppare questa patologia, risulta essere più alto nelle primipare.
 La presenza di disturbi psichiatrici nella storia personale della donna costituisce un altro importante fattore di rischio; in particolare, donne con un disturbo affettivo hanno circa il 50% di probabilità in più di sviluppare una psicosi (Harrington R., 1995) ma, allo stesso tempo, si è osservato che questa tipologia di psicosi può insorgere anche in donne che prima della gravidanza sembravano essere psicologicamente sane (Raphael-Leff J., 1990).
 Secondo alcuni Autori, la presenza di eventi traumatici nel corso dell’anno precedente al parto, uno scarso supporto ambientale, una situazione conflittuale con il partner, il parto cesareo sembrano aumentare la possibilità d’insorgenza di una psicosi (Asch S., 1992).
 Per quanto riguarda i fattori biologici implicati nella patogenesi delle psicosi post-partum, le conoscenze sono ancora scarse.
 L’esordio di questo quadro è acuto, la sintomatologia si manifesta entro le prime settimane dal parto e consiste in sintomi affettivi, come depressione e mania, associati a deliri, allucinazioni, disorganizzazione del comportamento, disorientamento e confusione mentale. La donna si ritira in se stessa, è triste, apatica e trasandata, presenta insonnia e inappetenza; rifiuta il suo bambino, affermando di non sopportarlo e di non volerlo vedere.
 I contenuti dei deliri sono collegati all’esperienza della maternità e generalmente riguardano la vita e la salute del bambino (Monti F., Agostani F., 2006) e ciò risulta essere un grave fattore di rischio per la salute del piccolo.
 In situazioni particolarmente difficili, come nel caso di disaccordi coniugali, di gravi difficoltà economiche o nel caso di una madre nubile o abbandonata, potrebbe verificarsi l’infanticidio, spesso accompagnato dal suicidio della madre.
 Alla base del desiderio di voler uccider il figlio, c’è la fantasia cosciente secondo la quale il bambino soffre e soffrirà sempre di più e solo la morte potrà salvarlo (Racamier P. C., 1978; Rubertsson C., Waldenstrom U., Wickberg B., Radestad I., Hildingsson I., 2005).
 La durata della malattia varia da un paio di mesi fino ad un massimo di otto e la prognosi, nella maggioranza dei casi, è buona.
 Inoltre, è stato rilevato che il momento dell’insorgenza delle psicosi puerperali sembra essere un fattore molto importante nel determinare la qualità del legame tra madre e figlio e il successivo sviluppo del bambino (Raphael-Leff J., 1990). 
Lamour (1989), esplorando gli effetti della psicosi materna sui bambini, ha rilevato un’accentuata presenza di disturbi dell’attaccamento e difficoltà a controllare gli impulsi aggressivi come conseguenza dell’incapacità della madre di interpretare l’espressione affettiva del bambino.
La gestione delle psicosi puerperali richiede interventi medici, psicologici e di assistenza articolati, a seconda della gravità della sintomatologia.
 Nelle forme più gravi è necessario il ricovero della donna in ambiente protetto e il trattamento con neurolettici.


Dott.ssa Nicolina Lo Mastro

domenica 6 novembre 2011

Giochiamo insieme?

Dalla nascita in poi, la maggior parte delle azioni che compie un bambino sono un gioco; con il gioco il bambino sviluppa le proprie capacità, esplora l'ambiente e impara le regole.
Per mezzo del gioco i bambini apprendono molte informazioni e nello stesso tempo si divertono. 
Ai bambini piace poco giocare da soli, preferiscono giocare in compagnia, perchè hanno bisogno dell'attenzione di qualcuno che condivida con loro il gioco. Solo gradualmente e con il passare del tempo diventano indipendenti anche nel gioco.
I bambini imparano da tutto ciò che li circonda e da ogni oggetto che gli capita sotto mano, traendone spunti per giocare e per imparare.
Spesso i piccoli dimostrano la capacità di creare e di fare delle cose interessanti con oggetti comuni che vengono utilizzati nel quotidiano.
Inoltre, gli stimoli a cui è esposto il bambino sono considerati tra i fattori più importanti per uno sviluppo ottimale. 
Pertanto è necessario che i genitori si impegnino ad essere sempre propositivi e attivi per aiutare il proprio figlio nella crescita; occorre capire cosa interessa e quali siano le inclinazioni del bambino.
La creatività del genitore e la capacità di individuare nelle situazioni quotidiane opportunità per crescere, cose da guardare e manipolare e per pensare è fondamentale per lo sviluppo del bambino.
Ogni età ha i propri giochi. Dalla nascita ai tre mesi, il bambino non ha ancora raggiunto la posizione eretta, è spesso sdraiato e pare poco capace di interagire con il mondo e le persone che lo circondano. I giochi che possono essere utilizzati devono essere in grado di stimolare i suoi sensi, in particolar modo la vista e l'udito; i giochi devono essere colorati e far rumore. Il genitore può proporre i giochi al piccolo e interagire con lui, anche se in questo momento è il viso del genitore e le sue espressioni che incuriosiscono maggiormente il neonato.
Verso i quattro mesi, il bambino impara a stare seduto e ad essere più partecipe nelle interazioni; a quest'età la bocca e le manine sono lo strumento privilegiato che consentono al bambino di esplorare e di scoprire, pertanto si possono utilizzare giochi colorati, facili da maneggiare, di diversa consistenza e che producono suoni diversi, come per esempio i sonagli. 
Dai sette ai nove mesi, il piccolo diventa via via più attivo, prende gli oggetti ed è in grado di riconoscere l'ambiente, le persone e gli oggetti  famigliari. I giocattoli devono essere colorati, di consistenza diversa come i peluche, oggetti di gomma o di legno o di tessuto, non troppo piccoli e non scomponibili (perchè le piccole parti potrebbero essere ingerite) e facili da afferrare. Con la supervisione degli adulti, si possono utilizzare anche oggetti comuni non pericolosi come i mestoli di plastica, le ciotole e i cucchiai. Sono molto apprezzate dai bambini anche le bottiglie di plastica, ben pulite e senza tappo.
Dai dieci ai dodici mesi, il bambino è un vero e proprio esploratore, incomincia a gattonare e a stare in piedi se trova un appiglio al quale aggrapparsi; in questa fase, i giochi devono sviluppare e accrescere la voglia di muoversi e di manipolare del bambino. Palloncini di diverso materiale e grandezza, carrettini da trascinare, cubi e costruzioni da incastrare, secchielli. macchine e trenini da spingere, peluche di tessuto sono fondamentali per favorirne lo sviluppo.
Ad un anno, il bambino acquisisce capacità manipolatorie sempre più elaborate ed è molto curioso. I giochi che predilige sono i pupazzi, i cubi e le costruzioni da incastrare, secchiello e palette; incomincia a giocare  con gli altri bambini, anche se osservandoli sembra che siano autonomi, essi sono in continuo scambio reciproco.
Verso i due anni, il bambino è interessato al gioco simbolico: il far finta di essere la mamma, giocare al supermercato o utilizzare oggetti di uso quotidiano per inventare storie e personaggi.
A questa età i giochi devono stimolare l'immaginazione e la creatività, pertanto sono molto utili le costruzioni, pentolini e piatti, peluche, vestiti per i travestimenti, fogli e colori, semplici strumenti musicali, tricicli, carettini e biciclette da usare all'aria aperta.

Dott.ssa Nicolina Lo Mastro.

giovedì 27 ottobre 2011

La Depressione post-partum... quando le mamme sono tristi!

La maternità comporta il più radicale cambiamento di ruolo che possa vivere una donna.  Trovarsi ad affrontare sentimenti e stati d’animo che non trovano immediato riconoscimento e conseguente collocazione all’interno dei propri personali riferimenti, la paura di non essere all’altezza, il continuo riferimento alla propria esperienza di figlia, determina un’instabilità psico-emotiva. 
Purtroppo la presa di coscienza intorno a tali tematiche è piuttosto scarsa e l’interesse al periodo del post-partum si concentra generalmente intorno alle cure ed ai consigli per accudire il neonato, o alla mamma che allatta, piuttosto che agli aspetti relazionali della diade madre-figlio e alle emozioni ed ai sentimenti della neomamma. 
Il difficile adattamento alla nuova condizione può determinare stati di sofferenza e di angoscia, fino a condizioni decisamente patologiche. Si tratta di situazioni che possono sfumare l’una nell’altra, che il sistema nosografico, DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994), ha classificato in crescendo come “baby blues”, depressione post-partum e psicosi puerperale.
Il “baby blues”, letteralmente “malinconia del neonato”, si riferisce allo stato di malinconia che caratterizza il fenomeno; si manifesta in oltre il 70% delle madri nei giorni immediatamente successivi al parto. È una sindrome clinica di intensità moderata, transitoria, di breve durata e nel complesso benigna, che insorge nei primi dieci giorni dopo il parto. 
Nel caso in cui questo stato d’animo persista per oltre due settimane, si deve ritenere di essere in presenza di una vera e propria depressione post-partum (Monti F., Agostani F., 2006; Ammaniti M.,  Cimmino S., Trentini C., 2007).
La depressione post-partum è un problema complesso e dalla diffusione crescente. Ha un’incidenza che si aggira intorno al 20-25% delle madri; l’esordio, che può avvenire dal terzo al primo anno dopo il parto, è sfumato e graduale, ma in alcuni casi può essere anche molto rapido. L’intensità della sintomatologia può variare da un lieve disagio nel gestire i rapporti all’interno del proprio nucleo familiare, fino ad arrivare a un sentimento di totale difficoltà nell’affrontare anche gli eventi più banali, legati non solo, alla maternità.
 Le madri affette da questa patologia provano un’eccessiva preoccupazione e ansia, sono molto irritabili, l’umore è depresso e frequenti sono i sensi di colpa e la perdita di speranza nel futuro; la madre esprime insicurezza e inadeguatezza circa le proprie capacità di gestire il bambino e si rimprovera di occuparsi del neonato senza provare gioia. Sia il sonno che l’appetito sono compromessi: possono esserci una difficoltà nell’addormentamento, sogni angosciosi che provocano bruschi risvegli, un risveglio precoce il mattino o al contrario un’eccessiva sonnolenza; inoltre, è possibile che si verifichi un alternarsi di perdita dell’appetito, con conseguente perdita di peso, e di episodi bulimici. Possono comparire difficoltà di concentrazione, causate dall’eccessiva stanchezza fisica che l’accudire un bambino determina, legata all’insufficiente recupero tra poppate, cambi di pannolino e sonni interrotti. Sono presenti anche sintomi fisici, solitamente dolori, debolezza muscolare, palpitazioni e vertigini (Amato M., 2007).
Quando la madre rimane sola con il bambino, possono comparire fobie e compulsioni. L’ansia aumenta a ogni richiesta del neonato e porta la mamma a consultare più volte il pediatra. La gravità può variare da episodi di depressione minore, spesso non diagnosticati, perché il funzionamento della madre è apparentemente buono, nonostante i vissuti e le esperienze emotive siano di tipo depressivo, fino a episodi di grave depressione maggiore.
Per quanto riguarda le cause dell’insorgenza della depressione post-partum, Milgrom e i suoi colleghi (2003) hanno proposto un modello eziopatogenetico di tipo biopsicosociale. In questo modo, vengono identificati numerosi fattori che entrano in gioco contemporaneamente, rendendo più probabile l’insorgere della depressione post-partum. Infatti, relativamente ai fattori biologici, è noto come in gravidanza si producono grandi quantità di progesterone e di estrogeni, in un perfetto equilibrio a seconda della fase della gravidanza; con il parto e nei giorni subito successivi, i livelli di questi ormoni si riducono bruscamente con ripercussioni sulla trasmissione dei neurotrasmettitori, incidendo, quindi, sul tono dell’umore, sulle capacità cognitive e sulla memoria. Inoltre, sembra che la prolattina, ormone che prepara le mammelle alla produzione di latte, abbia un certo effetto protettivo sull’insorgenza della depressione. Ma, le difficoltà che a volte si registrano nel corso dell’allattamento, come ad esempio l’insufficiente produzione di latte o le ragadi, possono essere fonte di stress per alcune donne, suscitando sentimenti di inadeguatezza e frustrazione.
Ci sono, inoltre, delle variabili personali che possono facilitare l’insorgenza della depressione post-partum. Donne che, in precedenza, hanno sofferto di disturbi psichiatrici sembrano essere a maggior rischio di depressione post-partum (Seifer, Dicksein, 2000). O’Hara e Swain (1996) hanno evidenziato che una storia precedente di depressione, in particolare se associata ad eventi di vita negativi, alla depressione durante la gravidanza e a vari fattori di stress legati al bambino, può essere considerata altamente predittiva della depressione post-partum.
Nonostante ciò, non mancano segnalazioni di insorgenza della depressione unicamente nel post-partum, non preceduta da precedenti episodi.
Anche un grave stato d’ansia durante la gravidanza può incidere sulla comparsa della sintomatologia depressiva nel periodo postnatale. Però, è più probabile che l’ansia rappresenti non una causa, ma una conseguenza dei numerosi eventi stressanti e dei fattori di vulnerabilità alla depressione post natale. Alcuni fattori di personalità, quali un forte bisogno di ordine, controllo e perfezionismo, una bassa autostima oppure un’eccessiva sensibilità interpersonale, potrebbero determinare la depressione, oltre che esserne l’effetto. 
Difficoltà relazionali con i propri genitori, scarse cure materne nell’infanzia, specialmente se associate ad abusi sessuali e maltrattamenti, o la perdita della madre durante l’infanzia sono tutti eventi traumatici che potrebbero essere considerati ulteriori fattori predittivi per la depressione. Cosi come donne, che hanno subito un lutto recente o un aborto, fanno fatica ad abituarsi alla nuova gravidanza, in quanto temono un’altra perdita e si sentono colpevoli di amare un’altra persona, sviluppando, successivamente, problemi dell’attaccamento nei confronti del bambino, nonché stati di panico e paura nel corso del travaglio e del parto. È stato rilevato anche che donne la cui madre ha sofferto o soffre di depressione, hanno una percentuale più elevata di rischio rispetto alla sintomatologia depressiva (Merchant D. C., Affonso D., Mayberry I., 1995).
Complicazioni alla nascita, una nascita traumatica o un parto cesareo possono provocare un vissuto doloroso e la sensazione di avere in qualche modo fallito. Il numero dei parti, l’età della donna, la mancata programmazione della gravidanza rappresentano fattori aggiuntivi di stress che possono contribuire all’insorgere della depressione post-partum (Milgrom J., Martin P. R., Negri L., 2003).Anche il temperamento del bambino e le difficoltà di interazione tra la  madre e il bambino risultano essere dei fattori altamente predittivi della depressione post-partum: una madre che vive il proprio bambino come difficile da gestire riceve un rinforzo negativo dall’interazione con il figlio, aumentando il rischio di sviluppare una depressione. Inoltre, è ben noto come la relazione madre-bambino sia caratterizzata da un adattamento reciproco nelle interazioni, in cui la madre si sintonizza con i ritmi del bambino e viceversa, ma una mamma molto depressa può essere carente nella capacità di sintonizzazione, privando, così, il bambino di esperienze di piacere e autonomia. 
Anche il conflitto coniugale, la mancanza di supporto emotivo e la qualità della relazione di coppia, possono influire sull’insorgenza della depressione. La particolare attenzione che la madre rivolge al neonato nelle prime settimane dopo il parto, corrispondente a quello stato mentale che Winnicott (1958) ha definito “preoccupazione materna primaria”, può far sentire il neo papà escluso affettivamente dalla coppia madre-bambino, con conseguenti difficoltà nel rapporto matrimoniale. Inoltre, alcuni sintomi della depressione, come irritabilità, stanchezza, perdita degli interessi e riduzione dei rapporti sociali, possono contribuire ad aumentare l’insoddisfazione coniugale (Paykel E. S., 1994) e a facilitare nelle donne vissuti di solitudine, di mancanza di sostegno pratico e affettivo da parte del coniuge (Giusti E., Pitrone A., 2004). 
È importante valutare, anche, la presenza di sostegno sociale, non solo da parte del coniuge, ma anche della famiglia e degli amici, nel periodo immediatamente dopo il parto e nei mesi successivi. In particolare, è la qualità del sostegno ad essere significativa, in quanto ad influire sarebbe la presenza o meno di qualcuno con cui condividere le preoccupazioni e sul quale poter contare in qualunque momento e circostanza. 
Il giusto sostegno fornito subito dopo il parto attenua il senso di isolamento e può essere di grande aiuto

Dott.ssa Nicolina Lo Mastro.

domenica 23 ottobre 2011

La gravidanza: tra cambiamenti somatici e corrispondenze psicologiche.


Molti autori concordano nel considerare la gravidanza come un  vero e proprio evento psicosomatico.
A tal proposito, diversi studi hanno cercato di individuare delle regolarità psichiche in corrispondenza delle trasformazioni che il corpo subisce nel corso dei nove mesi di gravidanza. Di particolare importanza è la percezione dei movimenti fetali, che viene considerata un momento fondamentale nella riorganizzazione dell’assetto psichico della gestante.
La Bribring (1959, 1961) parla di due importanti “compititi adattivi” della donna in relazione a due stadi della gravidanza: nei primi mesi dopo aver scoperto di portare in grembo una creatura, la gestante accetta e considera il feto come parte integrante di sé, in uno stato di fusione. I primi movimenti fetali, invece, segnano il momento in cui la donna, avvertendo la presenza del bambino, comincia a considerarlo come altro da sé, rompendo l’unità narcisistica precedente. A questo punto inizia il secondo compito che consiste nella riorganizzazione degli investimenti oggettuali per prepararsi all’evento nascita e alla separazione fisica dal bambino.
Un’altra autrice che sottolinea l’importanza della suddivisione della gravidanza in stadi è la Pines (1972, 1982). L'Autrice individua quattro fasi, mettendo in evidenza le corrispondenze tra le fantasie e le manifestazioni somatiche che si verificano.
Nel periodo iniziale la donna è molto concentrata su se stessa, sulle modificazioni che subisce il proprio corpo, come la crescita del seno e della pancia, le alterazioni del ritmo del sonno e la stanchezza. Il vomito, la nausea e le voglie sono considerati dei disturbi psicosomatici e indicano la presenza di ambivalenza nei confronti della gravidanza e del bambino, esprimendo da una parte il desiderio di espulsione del feto e dall’altra il tentativo di incorporarlo nuovamente in una fusione indissolubile.
Con la percezione dei primi movimenti fetali, ha inizio la seconda fase: il bambino viene riconosciuto nella sua individualità. In questo stadio aumentano le fantasie materne, sia consce che inconsce, sul feto e sulle sue caratteristiche, al quale vengono attribuiti i propri connotati.
Gli ultimi giorni della gravidanza costituiscono la terza fase; sono pervasi dalle preoccupazioni materne riguardanti il travaglio, il parto e la salute del bambino al momento della nascita. 
La gravidanza si conclude con il parto, il quarto stadio; in questa fase, avviene la separazione fisica tra il bambino e la madre e finalmente vi è l’incontro con il bambino reale; notevoli sono i cambiamenti corporei che si verificano. 
Le modalità in cui queste fasi vengono affrontate ed elaborate dalla donna inciderà sul suo sviluppo psichico e relazionale nei confronti del bambino.
Precedentemente si è accennato a come la gravidanza non sia solamente un periodo caratterizzato da gioie e speranze, ma spesso si presenta come un periodo caratterizzato da timori e angosce che, pur accompagnando tutta la gestazione, si presentano in maniera più evidente in prossimità del parto. 
Soifer (1971) individua sette momenti, in cui a particolari stati fisici è associato un eccesso di angoscia ben preciso. Nel primo mese l’ansia è legata all’incertezza sull’avvenuto concepimento e sulle proprie capacita di accudire successivamente il bambino. Fino al terzo mese, in ogni gravidanza, è alto il rischio di aborto ed esso viene messo in relazione alla paura che l’embrione non si sia annidato in modo consono nel ventre materno e pertanto ciò è vissuto in modo persecutorio. Dal quarto al quinto mese, diventano percepibili i movimenti del feto, che possono venir negati, oppure inconsciamente interpretati come segni minacciosi del bambino. Negli ultimi mesi della gestazione, la madre avverte movimenti più accentuati del bambino, provocando altre angosce inconsce che si manifestano a livello somatico, per esempio con crampi e ipertensione. Inoltre possono essere presenti paure di svuotamento e di perdita, innescati dal timore di una nascita pretermine. L’ultimo mese di gestazione è caratterizzato dall’insorgenza di incertezze sulla data del parto; l’eccesivo aumento di peso e delle dimensioni del bambino sono fonte di preoccupazione per la salute del bambino. Gli ultimi giorni precedenti al parto, contemporaneamente alla percezione delle prime contrazioni uterine, sono caratterizzati dall’angoscia di non riuscire a partorire, della paura dei dolori del travaglio e della morte propria e del bambino. Riemerge anche il conflitto tra il desiderio di trattenere il feto e quello di espellerlo, presente già all’inizio della gravidanza.
A proposito delle ansie riguardanti il parto, che si manifestano con maggior intensità negli ultimi mesi della gravidanza, la Breen (1992) mostra come il parto determina una separazione e pertanto implica delle paure; queste angosce sono controbilanciate dalla curiosità e dall’entusiasmo di incontrare il proprio figlio e sono talmente importanti da poter influenzare la durata del travaglio. La nascita di un bambino sano è fonte di rassicurazione e gioia, ma nello stesso tempo emergono tre “sensazioni di perdita”: quella della condizione di pienezza, innescata dalla gravidanza, in quanto il parto è vissuto come il termine di un’esperienza; la perdita del “bambino interno”, poiché partorire significa separarsi da un compagno che è rimasto costante per nove mesi; la perdita del “bambino fantasticato” e del proprio sé nel ruolo materno idealizzato, poiché il bambino reale può non avere tutte le caratteristiche attese e la madre stessa può scoprire che non ha tutte le capacità per accudirlo. Secondo l’Autrice, quest’ultima perdita è quella tra le più difficili da elaborare, in quanto possibile causa di delusioni e di tristezze dopo il parto.
Un’altra suddivisione della gravidanza in stadi è proposta dalla psicoanalista Raphael- Leff (1990). L’autrice evidenzia un’analogia tra i tre periodi individuati e le tre fasi del rapporto madre-bambino della Mahler (1975). I primi mesi di gravidanza sono caratterizzati da uno stato di “inattività vigile”, paragonabile alla fase “autistica normale”, dove la gestante è molto concentrata su se stessa per raggiungere uno stato di gioia e di benessere. Successivamente, con la percezione dei movimenti fetali, la donna comincia ad accettare la presenza del bambino, integrandola nell’immagine di sé. È la fase dello “schiudersi”, che può essere paragonata alla fase “simbiotica” della Mahler. Infine, la terza fase, che termina con il parto, comporta il “riavvicinamento” della madre al proprio bambino.
Si può notare come tutti gli autori citati siano concordi nell’evidenziare quanto siano incisivi sul vissuto materno i primi movimenti fetali. De Benedetti Gaddini (1992) sostiene che la preoccupazione materna primaria ha inizio proprio con la percezione dei primi movimenti fetali.
Con l’espressione “preoccupazione materna primaria” si fa riferimento a quel particolare stato della mente che la donna sviluppa dell’ottavo mese di gravidanza e permane fino al terzo mese di vita del bambino, che era stato descritto da Winnicot nel 1956. È una particolare condizione psichica, molto simile ad una malattia, caratterizzata dal completo assorbimento della madre nei confronti del proprio bambino, per entrare in sintonia con lui e con i suoi bisogni. La presenza di questa sensibilità materna, oltre ad essere fondamentale nell’anticipare e nel rispondere prontamente ai bisogni del neonato, è importante per porre le basi dello sviluppo della psiche del bambino. Infatti nel caso in cui la madre non sia stata in grado di tollerare la presenza di queste preoccupazioni, lo sviluppo del bambino subirà delle conseguenze.
Infine, per concludere questa breve trattazione circa l’influenza del rapporto tra modificazioni fisiche e cambiamenti nell’assetto psichico, intendo focalizzare l’attenzione su quanto, in gravidanza, l’aumentata produzione di ormoni, quali gli estrogeni e il progesterone, sia fondamentale per la comparsa dei comportamenti materni. Conseguente a quest’aumento ormonale è la modificazione della struttura stessa del cervello materno; in alcune aree aumentano le dimensioni dei neuroni, mentre altre modificano la loro struttura, dimostrando che la maternità migliora le capacità mentali della madre (Ammaniti M., 2008).


Dott.ssa Nicolina Lo Mastro

giovedì 13 ottobre 2011

Ninna nanna, ninna oh, questo bimbo a chi lo do...

Il ritmo sonno-veglia di neonati e bambini varia a seconda dei casi; alcuni bambini, fin dalla nascita, necessitano di più ore di sonno rispetto ad altri.
 A scopo indicativo, dalla nascita ai tre mesi, un neonato può dormire 16-17 ore su 24, oppure solamente 8, compresi i pisolini durante il giorno; il suo sonno è influenzato da numerose variabili quali il numero di pasti, specialmente di notte, il troppo caldo o il troppo freddo.
Dai tre ai sei mesi, il bambino crescendo ha meno necessità di essere nutrito di notte e di conseguenza i periodi di riposo si allungano; alcuni saranno in grado di dormire per 8 o più ore di seguito. 
Dai sei ai dodici mesi, la maggior parte dei bambini non ha più bisogno di mangiare di notte e quindi alcuni potrebbero dormire anche per 12 ore consecutive. A dodici mesi, i bambini dormono per un totale di 12-15, compresi i riposini  fatti nel corso della giornata.
Verso i due anni, è probabile che i piccoli dormano 11-12 ore a notte con uno o due riposini di giorno.
A tre-quattro anni, quasi tutti hanno bisogno di dormire 12 ore di sonno; alcuni potrebbero averne bisogno solo di 11 ore, mentre altri anche 14, con un pisolino durante il giorno.
Sin dalla nascita, si possono prevenire alcuni disturbi del sonno, stabilendo insieme al bambino una semplice e serena routine prima di andare a letto. Per esempio: fargli il bagnetto, mettergli il pigiamino, dargli il latte o la cena, lavargli i denti, la lettura di una favola, le coccole e infine il bacio della buona notte.
E' importante che queste abitudini vengano mantenute, anche con i bambini più grandi, evitando giochi movimentati prima di andare a letto.
Sarebbe opportuno mettere il piccolo ancora sveglio nel proprio letto invece di farlo addormentare in braccio,    altrimenti il bambino non imparerà ad addormentarsi da solo nella propria culla o lettino e vorrà essere cullato o rassicurato ogni volta che si sveglierà. E' necessario mettere a portata di mano del bambino alcuni oggetti che servono per rassicurarlo, come il ciuccio, un pupazzo, una copertina impregnata dell'odore della mamma o una debole luce soffusa.
Comunque, la maggior parte dei bambini al di sotto dei cinque anni si svegliano ancora di notte; alcuni si riaddormentano da soli, altri piangono e richiedono la presenza del genitore.
E' opportuno comprendere il motivo del risveglio e agire di conseguenza; per esempio, se il bambino ha paura del buio, lasciare una luce per la notte; se si sveglia a causa di brutti sogni e incubi, cercare di capirne il motivo; se ha troppo caldo o freddo, regolare i condizionatori o i caloriferi, mettendo una copertina in più. Bisogna assicurarsi che tutto sia a posto e rimettere a letto il bambino senza fare confusione o portarlo in altre stanze e, se è necessario, dargli dell'acqua.
 Gli incubi sono molto frequenti tra i 18-36 mesi e non sono da considerarsi segno di malattia, ma sono legati a ciò che è accaduto durante il giorno, generando nel bambino ansia o paura; il bambino dovrà essere rassicurato e generalmente non vi sono conseguenze e cessano con il tempo.
La capacità di addormentarsi da soli e riuscire a dormire per tutta la notte è una conquista importante nel percorso verso l'autonomia e la maggior parte dei problemi legati al sonno si risolvono mettendo in pratica dei semplici accorgimenti. 
C'è bisogno di molta pazienza e impegno ed è importante che entrambi i genitori siano concordi e coerenti con la strategia da seguire.

lunedì 10 ottobre 2011

Un sano stile di vita per la mamma che allatta...

La neo-mamma che deve produrre il latte, un'alimento di notevole importanza per la crescita del neonato, deve necessariamente seguire uno stile di vita sano e introdurre nel proprio organismo dei cibi adeguati. 
Non esiste una dieta speciale e uguale per tutte le donne che allattano, in quanto ogni organismo ha le proprie esigenze; una mamma impegnata a nutrire il proprio figlio, a differenza delle dicerie che si sono tramandate per anni, non deve mangiare per due ma deve assumere in modo equilibrato tutti i nutrienti necessari, tramite l'alimentazione. Ciò non significa mangiare in eccesso o opporsi agli stimoli dell'appetito, mettendo in atto drastiche diete dimagranti, per smaltire i chili in eccesso accumulati in gravidanza. 
Sempre assecondando i propri gusti, è necessario che la dieta della donna deve essere completa. Deve comprendere tutti gli alimenti essenziali per il benessere dell'organismo materno e per la produzione di buon latte per il bambino.
I cibi, che non dovrebbero mai mancare nell'alimentazione di una donna che allatta, sono i seguenti: i carboidrati come la pasta, il riso, il pane e i biscotti; la carne; il pesce; le uova; il latte e i latticini; le verdure fresche e cotte e la frutta di stagione.
Non è necessario mangiare in quantità eccessive cibi pesanti o indigesti, come le fritture o intingoli; è meglio che i grassi siano crudi.
E' opportuno non eccede con alcuni alimenti che possono conferire un sapore particolare al latte, come per esempio alcune verdure come i cavoli, l'aglio, gli asparagi, la verza ecc.; alcuni bambini possono rifiutare categoricamente di attaccarsi al seno piangendo disperatamente, mentre altri sembrano non accorgesi neanche.
Per quanto riguarda le bevande, di acqua è necessario berne almeno due litri al giorno; non sono controindicate bevande quali l'aranciata, la limonata e i succhi di frutta (meglio se fatti in casa). 
Il caffè, il tè e tutte quelle bevande che contengono caffeina e teina, vanno assunte con cautela, senza mai eccedere nella quantità (un paio al giorno, evitando di berle di sera).
E' meglio non abusare delle bevande alcoliche; il vino e la birra possono essere consumati in normali quantità, mentre è meglio evitare i superalcolici e liquori.
Per quanto riguarda il fumo, è ben noto come la nicotina possa danneggiare direttamente il bambino che viene allattato al seno, oltre che recare danni all'organismo della donna.
L'assuefazione al fumo è difficile da sradicare e si può soffrire davvero molto quando il tabacco viene tolto, tale da indurre alcune neo-madri fumatrici alla rinuncia all'allattamento al seno piuttosto che alla sigaretta.
Pertanto se la donna che allatta non riesce a troncare questa dannosa abitudine (almeno per il periodo dell'allattamento!), è necessario ridurre al minimo il numero di sigarette al giorno.
Infine, la cosa di cui la mamma che allatta ha più bisogno è il riposo, in quanto una donna che è stanca e assonnata non potrà mai portare avanti un'allattamento soddisfacente, rischiando di avere sempre meno latte. Durante la notte il neonato si sveglia frequentemente e nel corso del giorno deve essere assistito quasi ininterrottamente, pertanto è molto complicato per la neo mamma conciliare le proprie esigenze di riposo con quelle della casa, del marito, e della presenza di eventuali altri bambini; un po' di organizzazione, del buon senso e della buona volontà saranno necessari per far sì che la mamma si riposi e dedichi del tempo al recupero delle proprie energie, potendo contare sul partner che deve essere disponibile per un'autentica collaborazione per la cura del neonato.


Dott.ssa Nicolina Lo Mastro

giovedì 6 ottobre 2011

La preparazione al parto...quando l'informazione rende consapevoli!

Da sempre le donne hanno cercato ed acquisito informazioni, abilità e competenze sulla gravidanza e il parto all'interno della cerchia di figure femminili appartenenti alla propria famiglia allargata e partecipando alla cura della stessa, collaborando in modo diretto o indiretto al parto, all'allattamento e alla gestione dei piccoli.
In Italia, a partire dagli anni Cinquanta del secolo passato, soprattutto nei centri urbani, avviene un cambiamento nel luogo predisposto per il parto; non accade più in casa ma in ospedale e pertanto la neo-mamma non può più fare affidamento sul sostegno e l'atmosfera famigliare, privandola dell'appoggio e della trasmissione di informazioni sulla cura del neonato.
L'aumentare della vita media, la scolarizzazione e l'entrata della donna nel mondo del lavoro e il conseguente miglioramento delle condizioni socio-economiche, ha determinato un ritardo nell'età in cui si diventa madri e una notevole diminuzione del numero dei figli. 
Oggi, nel mondo occidentale, si assiste ad un accesso alla maternità  maggiormente strutturato e consapevole; la maggior parte delle donne in attesa del loro primo figlio frequenta un corso di preparazione alla nascita e  spesso vengono accompagnate dal partner o da altri membri della famiglia. 
La preparazione alla nascita è diventata indispensabile per poter compensare la mancanza di esperienza offerta, in tempi antichi, dalla famiglia allargata.
Già nella seconda metà dell'Ottocento, in Francia compaiono le prime esperienze per insegnare alle future mamme quale fosse la corretta condotta da assumere nel travaglio.
Nel corso della prima conferenza nazionale sulla mortalità infantile, tenutasi in Inghilterra nel 1906, si evinse che l'acquisizione materna di regole e di informazioni corrette riguardanti la salute e la cura di se e del  proprio bambino fosse fondamentale per la riduzione della mortalità infantile.
Negli anni Trenta, l'ostetrico britannico Dick Read propose corsi durante i quali venivano insegnate alle donne incinte tecniche di rilassamento per poter gestire meglio i dolori del travaglio; egli  riteneva che sia il travaglio che il parto potessero essere vissuti con una bassa soglia di dolore, in quanto la tensione e la paura della donna contribuivano a rendere le contrazioni dolorose.
Successivamente, negli Stati Uniti, Robert A. Bradley organizzò lezioni sulla nutrizione, il rilassamento, la respirazione naturale e tecniche di gestione del dolore durante il travaglio, con la partecipazione attiva del partner; l'ostetrico riteneva che, con una preparazione adeguata, l'istruzione e il supporto tecnico, la maggior parte delle donne potesse partorire naturalmente, senza farmaci o interventi chirurgici. 
In Russia, Velvovski e in seguito Pavlov svilupparono la teoria che le contrazioni del travaglio erano dolorose ma le donne potevano imparare delle tecniche che permettevano la concentrazioni su stimoli diversi dalle sensazioni dolorose provenienti dall'utero.
La tecnica Lamaze, è una tecnica di parto ideata nel 1940 dal medico ostetrico Fernande Lamaze, il cui obiettivo è quello di aumentare la fiducia di una madre nella sua capacità di partorire, riducendo al minimo la necessità di un intervento medico durante il parto. Questa tecnica prevede incontri che permettono di capire come affrontare il dolore, focalizzandosi sulla respirazione e sul movimento. 
In Italia, Miraglia e Piscicelli hanno sviluppato il metodo RAT (Training Autogeno Respiratorio) che consiste in un allenamento quotidiano per imparare a rilassare i muscoli sia volontari che involontari. Questo metodo, dagli anni Settanta in poi, è stato maggiormente adottato e proposto nei Consultori Famigliari.
In seguito all'aumento della medicalizzazione e dei parti cesarei, in Inghilterra, nel corso degli anni Ottanta, si assiste all'affermazione di un approccio globale che si preoccupa di aiutare la donna a sviluppare, identificare e mobilitare le proprie risorse personali per poter assumere un ruolo attivo nell'esperienza del parto. In questi anni anche il mondo scientifico comincia ad interrogarsi sul ruolo della donna nel suo percorso verso la maternità e sulla sicurezza ed efficacia delle procedure ostetriche erogate in ambito ospedaliero, evidenziando delle linee guida da seguire.
Ultimamente questo approccio si è consolidato ed ampliato, spostando il focus dal contenimento e riduzione del dolore fisico alla preparazione al parto che tiene in considerazione gli aspetti psicologici e promuove la partecipazione attiva e consapevole alla salute psico-socio-fisica della donna, del bambino e della famiglia.


Dott.ssa Nicolina Lo Mastro